Crisi del lavoro: il problema non è il Covid, ma chi governa i processi di innovazione

robot-forklift-hard-hatNETWORKDIGITALE360 – 11 DICEMBRE 2020

Il lavoro è in crisi da tempo ma il Covid si è solo aggiunto a una situazione già pesantemente compromessa da quando il neoliberalismo ha conquistato l’egemonia nel mondo. Ecco perché non è una questione di robot che ci rubano il lavoro, ma di democrazia e libertà.

La pandemia – è evidente – ha mandato in crisi il lavoro e l’economia. E 5 milioni e mezzo in più di italiani sono finiti nel tunnel della povertà, aggiungendosi agli oltre 8,8 milioni già certificati. E la Caritas aggiunge: “Raddoppiati gli interventi”. Secondo il Fondo monetario internazionale la ripresa nell’area euro è per di più minacciata dalla seconda ondata di Covid-19 che stiamo vivendo (irresponsabilmente) in queste ultime settimane, qualcuno chiedendo di riaprire le piste da sci mentre più di 600 persone muoiono ogni giorno.

E a meno che la dinamica della pandemia non cambi nei prossimi mesi, secondo il Fmi la crescita nel primo trimestre del 2021 sarà più debole di quanto previsto; mentre invece l’Ocse prevede che il Pil, nel 2021 salirà del 4,3%.

In realtà il lavoro è in crisi da tempo e il Covid si è solo aggiunto a una situazione già pesantemente compromessa da quando il neoliberalismo ha conquistato l’egemonia nel mondo (riportando il lavoro – da diritto che era diventato – a merce, per di più tendenzialmente low cost); e da quando siamo entrati in quella nuova fase della tri-secolare rivoluzione industriale che definiamo oggi con nuove tecnologie di rete, poi digitale/digitalizzazione o quarta rivoluzione industriale, già smaniando per la quinta.

Quarta rivoluzione industriale?

Digitalizzazione e quarta/quinta rivoluzione industriale: dove tutto sembra (e sembrerà) nuovo e molti promettono (di nuovo) l’inizio di una nuova era virtuosa e bellissima, magari mettendo insieme green (la sostenibilità ambientale) & blue (il digitale) – connubio in realtà impossibile da realizzare perché il blue è capitalistico e il capitalismo confligge strutturalmente con l’ambiente. Di più: la nostra fascinazione per la tecnica ci impedisce (di nuovo) di vedere che la quarta (e la quinta, se mai verrà) rivoluzione industriale è sempre quella vecchia, che si replica in “forme” tecniche nuove (i mezzi di connessione sono tecnologicamente diversi: ieri la catena di montaggio oggi il taylorismo digitalizzato della cosiddetta Industria 4.0) e con “normazioni” e “normalizzazioni” sociali anch’esse apparentemente nuovesenza mutare però la propria essenza.

Essenza basata, oggi come allora (la metà del ‘700) sulla divisione del lavoro (e della vita delle persone), per ottenere poi la loro integrazione/sussunzione/totalizzazione nel sistema organizzativo della rivoluzione industriale stessa, intesa come sistema tecnico & capitalistico.

Perché l’essenza della tecnica è quella della convergenza/integrazione di tutte le parti nell’apparato tecnico (Anders[1]); e perché (Ellul[2]) “il processo tecnico è un incessante meccanismo di integrazione dell’uomo”. E tutti i processi di integrazione agiscono mediante due azioni di modificazione comportamentale: far perdere a chi viene integrato la consapevolezza dell’insieme in cui viene sussunto (grazie appunto alla divisione del lavoro e della vita umana); portarlo a introiettare i fini del sistema e a farli diventare propri, pro-attivandosi ad auto-sussumersi nel sistema, permettendone così la riproducibilità.

Risultato, allora come oggi: eteronomia invece di autonomia-responsabilità; competenze a fare invece di conoscenza prima di fare. Su tutto, come direbbe il buon vecchio Karl Marx: alienazione dell’uomo da sé stesso, dalla proprietà dei mezzi di produzione e dai prodotti del suo lavoro; e crescente feticismo/amusement non solo per le merci ma per l’intero sistema tecno-capitalista.

Lavoro vecchio-nuovo e lavoro nuovo-vecchio

Per parlare di lavoro – in realtà per ragionare sul nostro modo tutto sbagliato di pensare e vivere la tecnica e la tecnologia – mettiamo insieme alcune notizie.

Cattiva notizia

La prima: sono state circa 40mila (quarantamila) le candidature arrivate per partecipare alla selezione di 100 (cento) operai generici – per di più part-time – addetti alla raccolta dei rifiuti a Roma. Considerazione: la fame di lavoro c’era ieri pre-covid (notizie simili hanno infatti costellato gli ultimi due decenni) e c’è oggi in-covid. Pessima situazione, effetto che ha una causa specifica.

Infatti, uccise culturalmente e politicamente oltre che nel senso comune (era uno degli obiettivi del neoliberalismo alla von Hayek e alla von Mises) le filosofie sociali (neo)keynesiane dei Trenta gloriosi (gli anni tra 1945 e fine anni ‘70), il lavoro si doveva flessibilizzare (anche part-time, anche nella raccolta dei rifiuti) e si deve precarizzare ancora di più. Così permettendo al sistema – ponendo ciascuno in competizione con ogni altro individuo, nella cinica istituzionalizzazione tecnica e neoliberale dello stato di natura, inteso (con Hobbes) come “bellum omnium contra omnes”[3] (e di cui il concetto di disruption è la metafora economica e il trumpismo quella politica) – di avere sempre a disposizione un abbondante e soprattutto remissivo esercito industriale di riserva.

Buona notizia

La seconda notizia è invece positiva – anche se, come si dice, “una rondine non fa primavera”: un rider palermitano di 49 anni è diventato il primo assunto a tempo indeterminato, con uno stipendio fisso e non più pagato a cottimo, del capitalismo delle piattaforme: lo ha deciso – sentenza storica davvero – il Tribunale del lavoro di Palermo, dove la giudice Paola Marino ha sancito che i fattorini devono essere considerati lavoratori dipendenti a tutti gli effetti. La causa era stata promossa da Nidil-Cgil dopo che il rider, nei mesi scorsi, era stato “disconnesso”, cioè “licenziato” dall’algoritmo della piattaforma.

Il Tribunale ha trasformato quindi una situazione de facto di subordinazione del lavoratore alla piattaforma (il mezzo di connessione/integrazione/totalizzazione del lavoro, cioè il mezzo di produzione – di proprietà del capitalista: Glovo) in una condizione de iure. Un grande passo avanti in termini di civiltà giuridica e di giustizia sociale. Infatti, “un anno e mezzo fa a Torino un gruppo di fattorini di Foodora aveva vinto una causa analoga e si era visto riconoscere l’applicazione del contratto di commercio, distribuzione e servizi.

La sentenza di Palermo fa un passo decisivo in più: i rider non sono lavoratori parasubordinati con un semplice diritto ad un trattamento assimilabile a quello dei dipendenti, ma subordinati a tutti gli effetti. Il che significa riassunzione, stipendio fisso, orario di lavoro, ferie, malattie e Tfr”. È un primo tentativo, forse, per subordinare il capitalismo delle piattaforme alla sovranità della legge e della Costituzione: al principio di uguaglianza e di dignità del lavoro; al diritto di avere una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità di lavoro svolta (perché il lavoro è appunto un diritto dell’uomo e non dovrebbe essere una merce); e a quanto scritto nell’articolo 41: “L’iniziativa economica privata è libera”, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. Pochi giorni dopo, Papa Francesco ha detto: “Il diritto alla proprietà è un diritto naturale secondario, derivato dai diritti di cui tutti sono titolari, scaturito dai beni creati” e “non vi è giustizia sociale in grado di affrontare l’iniquità che presupponga la concentrazione della ricchezza”. Secondario, ovvero non primario/prevalente/predominante come sostenuto/rivendicato invece da neoliberalismo e tecno-capitalismo.

La magistratura di Palermo ha sopperito, con la sua sentenza innovativa a una colpevole assenza del legislatore (troppo infatuato/sedotto dai processi di digitalizzazione, troppo genuflesso davanti al Gafam – un oligopolio di imprese monopolistiche, amante della disruption degli altri e della società), guardando e giudicando la realtà con gli occhi della verità oggettiva e non con gli occhiali propagandistici della tecno-filia a prescindere; una sentenza che sanziona quello sfruttamento ottocentesco del lavoro che è permesso/favorito/promosso dalle nuove tecnologie e dal digitale. Solo pochi anni fa – vale ricordarlo – qualche esperto di organizzazione sosteneva che finalmente, grazie alle piattaforme ciascuno poteva essere libero imprenditore di se stesso, tuttavia confondendo il conosci te stesso degli antichi greci con il diventa imprenditore di te stesso, come se fossero la stessa cosa e magnificava le sorti progressive dell’uberizzazione del lavoro, dimenticando che il mezzo di connessione/produzione è la piattaforma stessa, che non è certo di proprietà di chi la utilizza – essendone semmai governato e organizzato nel lavoro e nella vita – ma è di Uber come di Glovo e simili. Piattaforma che è la nuova/vecchia forma della vecchia/nuova fabbrica otto-novecentesca, cottimo compreso[4].

E così l’Industria 4.0, che dovremmo iniziare a chiamare con il suo vero nome, perché tale è nella maggior parte dei casi: taylorismo digitale o digitalizzato. Perché dalla fabbrica di spilli di Adam Smith alla catena di montaggio alla lean production e all’Industria 4.0 la norma e la razionalità strumentale-calcolante utilizzata è sempre identica (il modello della fabbrica integrata è ormai la rete); mentre i vecchi lavori (le vecchie forme di organizzazione del lavoro, come il fordismo-taylorismo) vengono replicati digitalizzandoli e fatti così sembrare nuovi con la parola digitale messa in evidenza.

Perché – e lo ribadiamo, qui ci stiamo occupando di lavoro, di consumo, di profilazione panottica, ma il digitale è anche altro e positivo e l’innovazione ha molte facce – è sempre lavoro industriale; e il lavoro industriale non è (non può essere) lavoro creativo (se non per poche eccezioni), ma è standardizzato e fatto per essere standardizzabile, ripetitivo e alienante (oggi dagli algoritmi), a pluslavoro crescente anche se oggi mascherato da empowerment, engagement, amusement, social, pro-attività, manager della felicità, eccetera; e a durata crescente (Marx docet) – ovvero non ammette (per il principio che non lo consente) vera autonomia dei lavoratori (a parte, anche qui, alcune eccezioni, di oggi come di ieri), ed è sempre più panottico passando dal just in time al just in sequence, e non è lavoro creativo né artigiano[5].

Il lavoro di domani?

E domani? Ha scritto Riccardo Luna: “La buona notizia è che i robot non prenderanno il nostro posto. Quella cattiva è che non stiamo facendo abbastanza affinché ciò non accada. Le due notizie sono contenute nel più atteso rapporto in materia: The Future of Work, frutto di due anni di lavoro di una task force di economisti e tecnologi del MIT di Boston”.

Rapporto secondo il quale: “Decades of technological change have polarized the earnings of the American workforce, helping highly educated white-collar workers thrive, while hollowing out the middle class. Yet present-day advances like robots and artificial intelligence do not spell doom for middle-tier or lower-wage workers, since innovations create jobs as well. With better policies in place, more people could enjoy good careers even as new technology transforms workplaces” – vecchia/nuova notizia-banalità anche questa, di disoccupazione tecnologica parlava già Keynes nel 1930, per citarne uno: la differenza con allora è – di nuovo – la velocità con cui il sistema tecno-capitalista distrugge posti di lavoro).

Democratizzare l’innovazione

Ma il vero problema è un altro. È quello di stabilire finalmente chi e come governa i processi di innovazione (e arriviamo al punto richiamato all’inizio, ovvero: qui parliamo di lavoro per parlare in realtà di democrazia e di libertà). Perché impattando così pesantemente sulla società e sugli individui, questo potere di decidere dell’innovazione non può e non deve essere consegnato a un soggetto privato (l’impresa) non democratico e tendenzialmente anti-democratico, ma deve essere controllato e gestito e governato consapevolmente da coloro sui quali impatta l’innovazione.

Partendo dal principio – che il tecno-capitalismo ci fa invece deliberatamente dimenticare inducendoci a credere che l’innovazione non si può e non si deve fermare – che in democrazia (perché sia democrazia) ogni potere deve essere bilanciato e controllato da un contro-potere; e che non può esistere un potere assoluto che si imponga come dato di fatto immodificabile, soprattutto in un sistema democratico.

Scriveva il grande sociologo Luciano Gallino (1927-2015), nel 2011 (e come meglio non si potrebbe anche per descrivere oggi, dieci anni dopo, la nostra dipendenza dal subordinazione al tecno-capitalismo): “La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. (…) e viene naturale includere diversi aspetti attinenti all’economia o ad essi strettamente correlati”.

E invece, continuava, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria o tecnologica, italiana o straniera che sia. E aggiungeva: “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia”. E poi ancora: “Il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca[6].

Alcune cose che sempre dimentichiamo

Non solo – e questo è un altro effetto che sempre dimentichiamo della tecnica/tecno-capitalismo, sempre sedotti, ogni volta di nuovo dalla sua promessa di liberarci dal lavoro, dalla fatica e di regalarci molto tempo libero (era la promessa degli anni ’90 del ‘900, cui si aggiungeva quella, sempre grazie alle nuove tecnologie, di porre finalmente fine ai fastidiosi cicli economici, avviandoci verso una nuova era di crescita infinita – sic!) – il tecno-capitalismo (se non viene subordinato alla e governato dalla democrazia e dalla legge costituzionale), sempre accrescerà lo sfruttamento del lavoro (il pluslavoro per il plusvalore, oggi con il capitalismo delle piattaforme-taylorismo digitale, capitalismo della sorveglianza/estrattivo-espropriativo) e della natura e dell’uomo, perché la sua razionalità solo strumentale/calcolante-industriale non tollera tempi morti e di riflessione (produce cioè, e ci rifacciamo a una distinzione di Sergio Bellucci, un “sapere come” – noi diciamo le ‘competenze a fare’ – e non un “sapere perché” (la conoscenza); sempre produrrà l’accelerazione dei tempi ciclo grazie all’automatizzazione non solo delle macchine ma del pensiero e dei comportamenti; sempre ricercherà l’integrazione/sussunzione crescente degli uomini nell’apparato (supra, Anders ed Ellul); sempre produrrà l’alienazione degli uomini da se stessi, dal loro lavoro e dalla consapevolezza della valutazione e della decisione e soprattutto dalla responsabilità per gli effetti delle azioni compiute – e questo quanto più aumenta la nostra delega alla tecnica, meccanismo di alienazione (di nuovo) prodotto dal nostro feticismo per la tecnica e gli automatismi. Ovvero: credere che la tecnica/tecnologia e il capitalismo ci liberino dal lavoro o ci facciano lavorare meno, è una contraddizione in termini. Si tratta di riconoscere questa contraddizione e di agire di conseguenza.

Se non riconosciamo che questa contraddizione è l’essenza del tecno-capitalismo, se non ne prendiamo consapevolezzamai riusciremo a governare questo tecno-capitalismo. E ci adatteremo a ciò che ci chiede il tecno-capitalismo, così però cessando di essere soggetti di essere sapiens, diventando ancor più oggetti/parti funzionali del sistema.

Per evitarlo occorre quindi – ma ex ante – una nostra uscita dall’egemonia della razionalità strumentale/calcolante-industriale che ci domina da tre secoli. Strumentale perché finalizzata solo all’accrescimento della produttività e quindi del profitto privato e dell’apparato tecnico; calcolante, perché basata solo sul calcolo e su una presunta efficienza (per cui lo scioglimento dei ghiacci polari diventa positivo ed efficiente perché riduce i tempi di percorrenza delle navi mercantili, quindi i costi, aumentando il profitto privato) e sulla valutazione capitalistica di tutto, anche dell’uomo; e industriale, perché oggi tutto (uomo compreso) è industria e merce e forza lavoro e mezzo di produzione e tutto è organizzato industrialmente, l’uomo, la rete, i social, l’Internet delle cose, la famiglia, la cultura, la scuola e l’università e le relazioni umaneUna razionalità del tutto irrazionale, ma che predetermina il funzionamento del capitalismo e della tecnica. E nostro.

E quindi – per poter democratizzare i processi di innovazione tecnologica-tecnica (oggi incontrollati), per poter ri-democratizzare l’impresa come soggetto economico (oggi diventato variabile indipendente) – a premessa di tutto (di nuovo, ex ante) occorre rovesciare quella razionalità strumentale/calcolante-industriale che è l’ideologia della modernità occidentale oggi globale – ricordando Umberto Galimberti che definiva con “tecnica”, sia l’universo dei mezzi (cioè le tecnologie) che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che preside al loro impiego in termini appunto di funzionalità e di efficienza. Cioè di calcolo.

Occorre allora recuperare un pensiero meditativo e della consapevolezza e acquisire un’etica della responsabilità alla Hans Jonas[7] come forma e norma dell’agire in vista di fini che siano umani (e oggi ambientalmente sostenibili). Ricordando ciò che aveva insegnato Camillo Olivetti al figlio Adriano (con un pensiero umanistico/meditativo): “Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per motivi dell’introduzione di nuovi metodi [organizzativi o tecnologici], perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”[8]. Una filosofia imprenditoriale – incomprensibile certo dal MIT e dal modello di management oggi dominante, ma proprio per questo ancora più necessaria – da meditare soprattutto oggi, in tempi non solo di pandemia ma di (apparente) quarta rivoluzione industriale, proprio mentre qualcuno (il Presidente di Confindustria, Bonomi) chiede, pur in piena pandemia, libertà di licenziare, applicando di nuovo un pensiero calcolante ma irrazionale/irresponsabile e socialmente dis-utile.

Analogo tuttavia a quello degli svizzeri che il 29 novembre scorso, con referendum, hanno respinto una proposta di iniziativa popolare per imporre il rispetto, anche all’estero, dei diritti umani e delle norme ambientali internazionali, da parte delle imprese elvetiche; e una proposta per imporre il divieto di finanziare (anche da parte della Banca Nazionale), i produttori di materiale bellico – armi e componenti – perché il divieto limiterebbe (dicevano i contrari all’iniziativa, usi a un pensiero solo calcolante evidentemente maggioritario in Svizzera) la libertà di investimento.

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